Tra questi non mancano i “signori delle Autostrade”.
“L’ex ministro Di Pietro la definì «una cuccagna». Che c’è di
meglio che gestire l’autostrada? Stai lì al casello, aspetti che passino le
auto e fai i soldi. A ogni Capodanno, cascasse il mondo, arriva l’aumento delle
tariffe. Ormai fa parte della tradizione: ci sono il veglione, il panettone,
zampone, lenticchie, il conto alla rovescia a Times Square. E i rincari al
casello. Dal 1999 a
oggi le tariffe autostradali sono aumentate del 75 per cento, a fronte di un
aumento dell’inflazione solo del 37 per cento. Non basta? Macché.
Infatti nel gennaio 2018, puntuale come il botto dello spumante, è arrivato il botto di un ulteriore aumento: in media 2,7 per cento in tutta Italia, ma con punte del 12,89 per cento sulla appena citata Strada dei Parchi, del 13,91 per cento sulla Milano-Genova nel tratto Milano-Serravalle e del 52,69 per cento sull’Aosta-Morgex. Ci sono state proteste, rivolte di pendolari, sindaci in piazza con tanto di fascia tricolore, il magistrato anticorruzione Cantone ha aperto un’inchiesta, Milena Gabanelli si è indignata sul «Corriere» («perché tutti parlano dei sacchetti di plastica e nessuno interviene sui pedaggi?»). Ma nessuno è riuscito a rispondere alla domanda fondamentale: perché le tariffe dell’autostrada aumentano anche quando gli altri prezzi restano fermi? E soprattutto: dove finiscono quei soldi?
Ogni anno gli italiani hanno pagato pedaggi per quasi 6 miliardi di euro, molto più di quanto pagavano con la tassa sulla prima casa, il triplo di quello che pagano con il canone Rai. Di questi soldi, solo una minima parte va allo Stato: 842 milioni. Il resto rimane nelle tasche delle 24 società che gestiscono le 25 concessioni in cui è divisa la nostra rete autostradale. E voi direte: come li spendono questi soldi? Per pagare il personale (circa 1 miliardo). Per gli investimenti (circa 1 miliardo). Per la manutenzione (646 milioni). Per le altre spese. Ma poi alla fine una bella fetta (1,1 miliardi) viene distribuita sotto forma di moneta sonante ai soci, per lo più privati. Ai quali, per l’appunto, non sembra vero di aver trovato l’albero della cuccagna.
Ma perché gli automobilisti italiani devono pagare tariffe, sempre più care, per arricchire i signorotti feudali del casello? Questo è uno dei grandi misteri italiani che nessuno è mai riuscito a spiegare. Il pedaggio, come è noto, nasce per ricompensare gli investimenti effettuati.
Il principio è semplice: il concessionario costruisce, l’automobilista paga. Casello dopo casello, esodo dopo esodo, vengono così rimborsate tutte le spese sostenute per realizzare l’opera. Il punto è questo: che succede quando tutte le spese sono state recuperate fino all’ultimo centesimo? Si continua a pagare il pedaggio? E perché? È un po’ come se uno che ha fatto un mutuo con la banca, arrivato allo scadere dell’ultima rata, si sentisse dire: abbia pazienza, ma deve pagare ancora per i prossimi vent’anni. Ma per quale motivo? Per arricchire la banca? Come se non avesse abbastanza soldi?
I concessionari delle autostrade di soldi ne hanno molti. Ma proprio molti. Non è un caso se, oltre a spartirsi dividendi, vanno a fare shopping in giro per il mondo. Spendono e spandono, tanto a loro che importa? C’è sempre un pedaggio che li fa ricchi. Secondo il professor Giorgio Ragazzi, uno dei massimi esperti del settore e uno dei pochi che ha cercato di far luce sull’intricato mondo dei signori del casello, tutti gli investimenti effettuati per costruire le autostrade erano già ampiamente ricompensati alla fine degli anni Novanta.
Eppure, da allora si è continuato a rinnovare le concessioni, fino al 2038, fino al 2046, fino al 2050, sempre in via diretta, sempre senza gare, anche rischiando sanzioni dall’Ue. Ci si è sobbarcati qualsiasi rischio e onere pur di riempire di denaro le tasche di questi fortunati. Ancora nel luglio 2017 il governo è andato a Bruxelles per ottenere il prolungamento delle proroghe e l’ha presentato come un suo successo. Ma siamo sicuri che sia un successo? Il prolungamento delle proroghe? Davvero gli italiani non desideravano altro?
Macché. Il fatto è che gli italiani sono stati tenuti all’oscuro. Vietato parlarne. Mi è capitato una volta, in una popolare trasmissione tv di Raiuno dedicata al tema della concorrenza, di citare le autostrade, sono stato sommerso di messaggi stupiti: davvero? Hai parlato di autostrade? Ci sei riuscito? Come hai fatto? Eppure il pedaggio al casello lo paghiamo tutti, e ogni anno più caro. Fra il 2011 e il 2016 l’aumento medio delle tariffe è stato del 14 per cento. Nello stesso periodo gli investimenti si sono dimezzati. E ciò dimostra che quel pedaggio non è il prezzo per un servizio reso né la ricompensa per un investimento fatto: è semplicemente, come spiega ancora il professor Ragazzi, «un’imposta tout court».
Un’imposta il cui gettito, però, per una buona parte non finisce nelle casse dello Stato, ma nelle tasche dei soci delle aziende, molto spesso privati, che si sono conquistati questa roccaforte d’oro e non la mollano più. Anzi, ogni anno contrattano un aumento.
Infatti questa imposta, che non avrebbe più ragione d’essere, non solo non viene mai rimessa in discussione, ma diventa ogni anno più salata. Come mai? Il calcolo dell’aumento tariffario avviene in una maniera molto complicata, ma sostanzialmente sulla base di quattro elementi: l’inflazione, la qualità del servizio, il «fattore X» e il «fattore K».
Già la qualità del servizio è piuttosto discutibile (è un complesso parametro basato su pavimentazione e indici di mortalità: ma se, per esempio, la mortalità si riduce perché viene introdotta la patente a punti o perché la polizia stradale aumenta i controlli, che merito ha chi gestisce l’autostrada?). Gli altri due indici, poi, sono totalmente fumosi, anche perché sono tenuti rigorosamente segreti. In teoria il fattore X dovrebbe tener conto della produttività e il fattore K dovrebbe tener conto degli investimenti. Ma, di fatto, sono così misteriosi che sembrano studiati apposti per lasciar spazio alla trattativa tra ministero e gestori, una specie di braccio di ferro che si ripete ogni anno e che è il vero meccanismo con cui si decidono gli aumenti delle tariffe. Ovviamente, sempre a scapito degli automobilisti-contribuenti.
Infatti nel gennaio 2018, puntuale come il botto dello spumante, è arrivato il botto di un ulteriore aumento: in media 2,7 per cento in tutta Italia, ma con punte del 12,89 per cento sulla appena citata Strada dei Parchi, del 13,91 per cento sulla Milano-Genova nel tratto Milano-Serravalle e del 52,69 per cento sull’Aosta-Morgex. Ci sono state proteste, rivolte di pendolari, sindaci in piazza con tanto di fascia tricolore, il magistrato anticorruzione Cantone ha aperto un’inchiesta, Milena Gabanelli si è indignata sul «Corriere» («perché tutti parlano dei sacchetti di plastica e nessuno interviene sui pedaggi?»). Ma nessuno è riuscito a rispondere alla domanda fondamentale: perché le tariffe dell’autostrada aumentano anche quando gli altri prezzi restano fermi? E soprattutto: dove finiscono quei soldi?
Ogni anno gli italiani hanno pagato pedaggi per quasi 6 miliardi di euro, molto più di quanto pagavano con la tassa sulla prima casa, il triplo di quello che pagano con il canone Rai. Di questi soldi, solo una minima parte va allo Stato: 842 milioni. Il resto rimane nelle tasche delle 24 società che gestiscono le 25 concessioni in cui è divisa la nostra rete autostradale. E voi direte: come li spendono questi soldi? Per pagare il personale (circa 1 miliardo). Per gli investimenti (circa 1 miliardo). Per la manutenzione (646 milioni). Per le altre spese. Ma poi alla fine una bella fetta (1,1 miliardi) viene distribuita sotto forma di moneta sonante ai soci, per lo più privati. Ai quali, per l’appunto, non sembra vero di aver trovato l’albero della cuccagna.
Ma perché gli automobilisti italiani devono pagare tariffe, sempre più care, per arricchire i signorotti feudali del casello? Questo è uno dei grandi misteri italiani che nessuno è mai riuscito a spiegare. Il pedaggio, come è noto, nasce per ricompensare gli investimenti effettuati.
Il principio è semplice: il concessionario costruisce, l’automobilista paga. Casello dopo casello, esodo dopo esodo, vengono così rimborsate tutte le spese sostenute per realizzare l’opera. Il punto è questo: che succede quando tutte le spese sono state recuperate fino all’ultimo centesimo? Si continua a pagare il pedaggio? E perché? È un po’ come se uno che ha fatto un mutuo con la banca, arrivato allo scadere dell’ultima rata, si sentisse dire: abbia pazienza, ma deve pagare ancora per i prossimi vent’anni. Ma per quale motivo? Per arricchire la banca? Come se non avesse abbastanza soldi?
I concessionari delle autostrade di soldi ne hanno molti. Ma proprio molti. Non è un caso se, oltre a spartirsi dividendi, vanno a fare shopping in giro per il mondo. Spendono e spandono, tanto a loro che importa? C’è sempre un pedaggio che li fa ricchi. Secondo il professor Giorgio Ragazzi, uno dei massimi esperti del settore e uno dei pochi che ha cercato di far luce sull’intricato mondo dei signori del casello, tutti gli investimenti effettuati per costruire le autostrade erano già ampiamente ricompensati alla fine degli anni Novanta.
Eppure, da allora si è continuato a rinnovare le concessioni, fino al 2038, fino al 2046, fino al 2050, sempre in via diretta, sempre senza gare, anche rischiando sanzioni dall’Ue. Ci si è sobbarcati qualsiasi rischio e onere pur di riempire di denaro le tasche di questi fortunati. Ancora nel luglio 2017 il governo è andato a Bruxelles per ottenere il prolungamento delle proroghe e l’ha presentato come un suo successo. Ma siamo sicuri che sia un successo? Il prolungamento delle proroghe? Davvero gli italiani non desideravano altro?
Macché. Il fatto è che gli italiani sono stati tenuti all’oscuro. Vietato parlarne. Mi è capitato una volta, in una popolare trasmissione tv di Raiuno dedicata al tema della concorrenza, di citare le autostrade, sono stato sommerso di messaggi stupiti: davvero? Hai parlato di autostrade? Ci sei riuscito? Come hai fatto? Eppure il pedaggio al casello lo paghiamo tutti, e ogni anno più caro. Fra il 2011 e il 2016 l’aumento medio delle tariffe è stato del 14 per cento. Nello stesso periodo gli investimenti si sono dimezzati. E ciò dimostra che quel pedaggio non è il prezzo per un servizio reso né la ricompensa per un investimento fatto: è semplicemente, come spiega ancora il professor Ragazzi, «un’imposta tout court».
Un’imposta il cui gettito, però, per una buona parte non finisce nelle casse dello Stato, ma nelle tasche dei soci delle aziende, molto spesso privati, che si sono conquistati questa roccaforte d’oro e non la mollano più. Anzi, ogni anno contrattano un aumento.
Infatti questa imposta, che non avrebbe più ragione d’essere, non solo non viene mai rimessa in discussione, ma diventa ogni anno più salata. Come mai? Il calcolo dell’aumento tariffario avviene in una maniera molto complicata, ma sostanzialmente sulla base di quattro elementi: l’inflazione, la qualità del servizio, il «fattore X» e il «fattore K».
Già la qualità del servizio è piuttosto discutibile (è un complesso parametro basato su pavimentazione e indici di mortalità: ma se, per esempio, la mortalità si riduce perché viene introdotta la patente a punti o perché la polizia stradale aumenta i controlli, che merito ha chi gestisce l’autostrada?). Gli altri due indici, poi, sono totalmente fumosi, anche perché sono tenuti rigorosamente segreti. In teoria il fattore X dovrebbe tener conto della produttività e il fattore K dovrebbe tener conto degli investimenti. Ma, di fatto, sono così misteriosi che sembrano studiati apposti per lasciar spazio alla trattativa tra ministero e gestori, una specie di braccio di ferro che si ripete ogni anno e che è il vero meccanismo con cui si decidono gli aumenti delle tariffe. Ovviamente, sempre a scapito degli automobilisti-contribuenti.
Bankitalia ha calcolato infatti che ogni chilometro di
autostrada nel nostro Paese rende 1,1 milioni di euro (il doppio della Spagna,
il triplo della Grecia, infinitamente più della Germania dove le autostrade
sono gratis). Di questi la gran parte (850.000 euro al chilometro) finisce alle
concessionarie. Che, per altro, ci aggiungono ulteriori guadagni: per esempio
gestendo le attività commerciali sulla rete autostradale e assegnando appalti
per i lavori di manutenzione a società che fanno parte del loro stesso gruppo.
Non è un incastro meraviglioso?
Questi sono i famosi imprenditori privati italiani, bravissimi
come sempre ad assumere il rischio d’impresa a patto di avere le spalle ben
coperte dal denaro pubblico: ottengono concessioni senza gare, gestiscono
appalti senza concorrenza e soprattutto non rischiano mai un soldo di tasca
loro, perché gli investimenti (quando ci sono) se li fanno pagare in anticipo
dagli italiani. Quando la
società Autostrade era pubblica, si diceva fosse la «gallina
dalle uova d’oro» dello Stato.
È rimasta tale, evidentemente. Solo che le uova d’oro
finiscono direttamente dal casello alle tasche dei Gavio o dei Benetton, che
non a caso guidano la classifica dei Paperoni 2017: il patrimonio dei primi è
cresciuto del 101 per cento, passando da 1,9 a 3,9 miliardi di euro; il patrimonio dei
secondi è cresciuto del 20,2 per cento, passando da 6,8 a 8,1 miliardi di euro.
Fortunati loro, si capisce. Ma noi potremo almeno chiederci se è giusto farci
spennare al casello per renderli sempre più ricchi?
In questi anni ci si è fatti molto spesso (ma sempre molto sommessamente) diverse domande. Per esempio: perché l’Iri vende una gallina dalle uova d’oro? Perché a quel prezzo? E perché lo fa subito dopo chela società Autostrade
ha ottenuto il rinnovo della concessione fino al 2038? L’economista Giorgio
Ragazzi, che ha studiato a fondo la materia, sostiene che in quel momento l’Iri
non aveva bisogno di far cassa, dal momento che gli obiettivi di risanamento
finanziario per l’entrata nell’Ue erano già stati raggiunti: perché vendere
quel tesoro, allora? E perché venderlo senza mettere clausole più severe sulle
tariffe? Oppure chiedendo in cambio più soldi, come è accaduto in altri Paesi
europei? La vendita della gallina delle uova d’oro, infatti, rese allo Stato
6,7 miliardi di euro. Se non fosse stata venduta, in questi vent’anni avrebbe
portato nelle casse pubbliche molto di più.
In questi anni ci si è fatti molto spesso (ma sempre molto sommessamente) diverse domande. Per esempio: perché l’Iri vende una gallina dalle uova d’oro? Perché a quel prezzo? E perché lo fa subito dopo che
Invece quei soldi sono finiti ai privati. E, a proposito di
privati e di soldi, mi sia concesso un inciso: lo sapete chi era il presidente
dell’Iri fra il 1997 e il 1999, cioè quando sono state prese le decisioni
fondamentali per la privatizzazione delle autostrade? Gian Maria Gros-Pietro,
pezzo grosso dell’economia italiana, professore universitario alla Luiss,
origini torinesi, frequentazioni in tutti i salotti che contano, forte amicizia
con Prodi. E lo sapete che incarico ha avuto, dopo la privatizzazione delle autostrade,
il professor Gros-Pietro? Fra il 2003 e il 2010 è stato presidente di Atlantia,
la società del gruppo Benetton che controlla, per l’appunto, le autostrade
privatizzate.
Succede anche questo in Italia: uno è presidente di una
società pubblica, vende a un privato un pezzo del suo impero e poi va a
lavorare con il medesimo privato. Tutto legale, tutto regolare, come il
compenso che Gros-Pietro percepiva dai Benetton: oltre 1 milione di euro
l’anno. Fra l’altro: adesso il professore ha cambiato azienda, ma è rimasto nel
settore. È diventato presidente della Astm, la holding che controlla le
autostrade private del gruppo Gavio. Si deve accontentare di 340.000 euro
l’anno che però arrotonda con i 900.000 euro che gli dà Intesa Sanpaolo, dove è
presidente. A lui, se non altro, il rincaro al casello non pesa troppo.
I Gavio incassano 3,5 milioni di euro al giorno
Andate in autostrada da Milano a Torino? Date un contributo a
Gavio. Andate da Parma a La Spezia? Date un contributo a Gavio. Andate da
Torino a Piacenza? Da Torino ad Aosta? Da Torino a Savona? Non cambia nulla:
date sempre un contributo a Gavio. E anche se andate da Savona a Ventimiglia,
sull’autostrada dei fiori. O se vagate sull’autostrada toscana fra Sestri
Levante, Livorno, Lucca e Viareggio. O se attraversate il traforo del Fréjus. O
il traforo del San Bernardo. O le tangenziali di Torino.
Non potete scappare: in ogni caso, volenti o nolenti, quando
passate dal casello, lasciate un obolo per rendere sempre più grande l’impero
dei signori di Tortona. Sono entrati nel settore autostrade nel 1995 con un
piccolo investimento. Si trovano oggi a capo del quarto gruppo mondiale. Le
loro due principali società quotate in Borsa valgono 3,9 miliardi di euro.
In Italia i Gavio gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1460 chilometri di
asfalto. Nell’ultimo anno (2016) hanno incassato, solo di pedaggi,
1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Proprio così: i signori
di Tortona hanno un negozio che ogni giorno che il buon Dio manda sulla Terra
mette in cassa 3,5 milioni di euro. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli.
Una bella fortuna, no? Saranno pure bravi, nessuno lo mette in dubbio. Ma lo
Stato è sempre stato piuttosto generoso con loro. Lo dimostra il fatto che
alcune di queste concessioni proseguiranno ancora per anni e anni: una scade
nel 2031, un’altra nel 2032, un’altra nel 2035, un’altra nel 2038, una
addirittura nel 2050. Il 2050, ci pensate? Se sarò al mondo, avrò 84 anni. E la
mia unica certezza è che i Gavio saranno ancora lì, ad aspettarmi al casello
per chiedermi l’obolo…
Sapete qual è la giustificazione di queste concessioni così
lunghe? Sempre la
stessa. Dicono di dover recuperare il denaro investito.
Abbiamo già visto che non è così, abbiamo visto che le concessioni si prolungano
ben oltre il recupero dei capitali investiti, ma tant’è: i Gavio vengono da
Tortona, terra di timorati e timorassi, e vogliamo metterli alla prova.
Facciamo due conti: fra il 2008 e il 2016 le concessionarie del gruppo, come si
vede dalla seconda tabella a fine paragrafo, si erano impegnate a fare
investimenti per 5,3 miliardi.
Ne hanno effettuati in realtà solo 3,1, cioè all’incirca il 60
per cento del dovuto. In compenso nello stesso periodo la holding dei Gavio ha
messo a disposizione dei soci utili per 522 milioni di euro. Quindi la domanda
è la seguente: chi ottiene una concessione fino al 2050 per fare investimenti,
non dovrebbe almeno avere il buon gusto di farli? E se invece ne fa 2 miliardi
in meno, è giusto che si metta in tasca mezzo miliardo di utili? In altre
parole: perché gli automobilisti devono pagare i mancati investimenti e le
tariffe sempre più alte, mentre alcuni privati, benedetti dal casello, si
arricchiscono alle loro spalle? (…)
Benetton/1. United Colors of Pedaggio
Chi mi ama mi segua. Ma prima paghi il pedaggio al casello.
C’era una volta un’impresa simbolo del genio italico, Nordest creativo, colori
e futuro, cardigan e pubblicità. La Benetton e quegli slogan choc di Oliviero
Toscani: chi se li dimentica più? Solo che oggi andrebbero un po’ rivisti.
Bisognerebbe dire, per esempio: United Colors of Pedaggio. Oppure: non avrai
altro Telepass al di fuori di me. E al posto del corpo scheletrico
dell’anoressica ci dovrebbe essere il borsellino dell’automobilista,
altrettanto prosciugato.
La famiglia di Treviso, che partì povera e si arricchì con i
vestiti, si appresta oggi a diventare leader mondiale delle autostrade, grazie
all’acquisizione della spagnola Abertis. In Italia leader delle autostrade lo è
già: attraverso le sue holding gestisce 3020 chilometri dei
5886 dati in concessione dal ministero dei Trasporti. Quindi oltre la metà. Sono 6 diverse
concessioni che coprono una quantità infinita di tratte, dal Nord al Sud, a
cominciare dalla Milano-Napoli, passando poi per la Milano-Serravalle, la Voltri-Gravellona Toce ,
la tangenziale di Napoli, il Traforo del Monte Bianco, l’autostrada Tirrenica,
l’autostrada della Valle d’Aosta…
Ogni anno 2 miliardi di transiti al casello: ciò significa 5
milioni e mezzo al giorno, 230.000 l’ora, 63 al secondo. Proprio così: ogni
secondo che passa ci sono 63 veicoli che stanno versando il loro generoso obolo
nelle casse dei Benetton. Provate a contare: un secondo. Ne sono passati 63. Un
altro secondo, zac: altri 63. Sentite il tintinnar dei quattrini?
Non ci si può stupire se, in questo modo, si costruisce un
impero. Laddove c’era il maglioncino, adesso c’è un colosso delle
infrastrutture, che si estende dal Cile all’India, dal Brasile alla Polonia,
gestisce gli aeroporti di Roma, compra gli aeroporti (tre) della Costa Azzurra,
ha imprese di costruzioni e ingegneria, e controlla pure il monopolio del
Telepass. Nel 2016 ha
incassato 5,4 miliardi di euro, in Borsa ne vale circa 8,1.
La maggior parte delle entrate arriva proprio dalla gestione
delle autostrade, soprattutto da quando maglioncini e vestiti trendy hanno
perso creatività e forza innovativa, come ha ammesso lo stesso Luciano Benetton
in una storica intervista a «Repubblica» (30 novembre 2017) in cui, a 82 anni
suonati, ha annunciato: «Torno in azienda. Avevo lasciato i manager ma loro
hanno spento i colori. Ci siamo sconfitti da soli». (…)
Come non capirli? Contraddire il potente Castellucci è sempre
pericoloso, mettersi contro la lobby autostradale al sapor di radicchio e
maglioni colorati è sconsigliato. Però, scusate l’ardire, noi non possiamo fare
a meno di leggere i dati ufficiali: tra il 2008 e il 2016 le tariffe sulla rete
gestita dai Benetton sono aumentate del 25 per cento, ben oltre l’inflazione.
Sul tratto autostradale della Val d’Aosta addirittura del 50 per cento. Se
l’avesse fatto Gaetano al Bar Sport di Usmate-Velate la gente sarebbe scappata
in massa. Invece dall’autostrada si può scappare solo un po’. È per questo che
al casello i ricavi aumentano anche quando il traffico diminuisce, chiaro no?
Passiamo agli investimenti: nonostante l’indiscutibile
risultato ottenuto con il valico dell’Appennino, la «società che investe di
più» indubbiamente investe meno del previsto: manca almeno 1 miliardo e mezzo a
quanto concordato al momento della concessione, che proprio per questo era
stata prolungata fino al 2038. Avete capito bene: la concessione (stiamo
parlando di quella di Autostrade per l’Italia, la più importante delle 6, che
riguarda 2857
chilometri su 3020) dura fino al 2038 perché i Benetton
avevano promesso quasi 10 miliardi di investimenti.
Qualcuno che protesta? Macché: silenzio generale.
(…) in questi otto anni l’azienda, con i soldi incassati
grazie a tariffe sempre più alte, non solo ha fatto shopping nel mondo, non
solo ha aumentato il suo patrimonio, ma ha anche distribuito copiosi dividendi
ai suoi soci. Tre miliardi e mezzo, euro più, euro meno. Non è bellissimo? Un
miliardo e mezzo di investimenti in meno, 3,5 miliardi di soldi in più in
saccoccia. (…)
Benetton/2. Quanti regali ai signorotti di Treviso
Inutile dire che anche la concessione autostradale ai
Benetton, come quella ai Gavio, viene prolungata (ripetiamo: fino al 2042)
automaticamente. Senza che venga indetta alcuna gara. Eppure sarebbe
obbligatorio in base alle regole europee, oltre che conveniente. Per aggirare
l’impiccio di Bruxelles, e scialare in santa pace, viene usato, però, sempre lo
stesso escamotage: ci si appiglia cioè agli investimenti (in questo caso la
Gronda di Genova, la terza e la quarta corsia in Emilia e Toscana),
dimenticando che in fondo quegli investimenti erano già previsti nei piani
finanziari, e dunque negli aumenti di tariffa autorizzati negli anni passati.
Ma che ci volete fate? Noi siamo fatti così. Generosi. (…)
Lo dimostra il caso della tratta tirrenica, 202 chilometri
previsti e mai completati fra Livorno e Civitavecchia, sempre gestiti dalla
società che fa capo a Treviso. A tutt’oggi i chilometri aperti sono appena 55,
il piano di investimenti è fermo al 12 per cento di realizzazione (dodici per
cento!), eppure la concessione è stata prolungata dal 2028 al 2046. Perché?
Perché sì. L’Europa ci ha provato in tutti i modi a dissuadere l’Italia dal
fare questo regalino senza motivo. Niente da fare. Noi testardi come dei muli.
Quando c’è da dare una mano ai Benetton non ci fermiamo davanti a nulla.”
Predoni che hanno trovato la spalla nella politica.
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