Personalmente non guardo mai il discorso di fine anno del Capo dello Stato
di turno ma leggendo la perfetta “analisi” nel bellissimo articolo di Marco
Travaglio sul Fatto di giovedì mi sono ancora più convinta che ascoltarlo non
vale nemmeno i soldi per la luce che si spende a tenere acceso il televisore. Tutti
gli anni ci vengono propinati 20 minuti di ipocrisie, vengono sbandierati
risultati mai raggiunti, false promesse e parecchie frasi demagogiche inutili.
Questo Capo dello Stato, l’unico giunto al suo ottavo discorso, fa pure la finta
paternale ad un governo che ha fortemente voluto lui accettando di fare le
larghe intese che stanno affondando ulteriormente il paese e non giungono a
nessun risultato utile per la
ripresa. Un governo che è bravo solo a cercare di trovare
tutte le strade costituzionali o meno, per non perdere la propria troppo pagata
poltrona.
(pubblicato modificato sul Fatto Quotidiano del 4 gennaio)
COLLE 22 - Marco Travaglio
Metteva tristezza, molta tristezza, l’ottavo monito di Capodanno del
Presidente Monarca. Triste il tentativo disperato di recuperare uno
straccio di rapporto con la gente comune dopo il crollo di popolarità
nei sondaggi (dall’84% di due anni fa al 47-49 di oggi) inaugurando la
rubrica “La posta del cuore”: Sua Maestà ha declamato alcune lettere di
sudditi in difficoltà per la crisi, omettendo quelle critiche e senza
rispondere a nessuna. Triste l’evocazione del dramma degli esodati e il
silenzio su chi li ha condannati alla miseria: il governo Monti e la
ministra Fornero, creati in laboratorio da lui stesso.Triste l’appello
al cambiamento e al rinnovamento della classe politica lanciato da un
veterano della Casta entrato in Parlamento nel lontano 1953 per non
uscirne mai più. Triste l’encomio al governo Letta jr. per le “misure
recenti all’esame del Parlamento in materia di province e di
finanziamento pubblico dei partiti”, due maquillage gattopardeschi che
non faranno risparmiare un solo euro alla collettività. Triste il
successivo atteggiarsi ad arbitro imparziale: “Non tocca a me esprimere
giudizi di merito sulle scelte compiute dall’attuale governo… il solo
giudice è il Parlamento”, come se non avesse appena elogiato due scelte
compiute dall’attuale governo. Triste la citazione con nomi e cognomi
dei due marò imputati in India per aver accoppato due innocenti
pescatori indiani e spacciati per eroi nazionali martirizzati per la
guerra alla pirateria; e, al contempo, il silenzio sul pm Nino Di Matteo
condannato a morte da Totò Riina e sui suoi colleghi palermitani
minacciati dalla mafia. Tristemente beffardo l’accenno alla Terra dei
Fuochi come un “disastro” contro l’“ambiente”, senza una sola parola
sulle 150 mila cartoline con le foto dei bambini morti di cancro per un
crimine perpetrato dalla camorra e insabbiato per quasi vent’anni dallo
Stato, fin da quando lui, Napolitano, era ministro dell’Interno.
Tristemente imbarazzante l’autoelogio per lo scrupoloso rispetto delle
prerogative presidenziali: “Nessuno può credere alla ridicola storia
delle mie pretese di strapotere personale”. Lo dice lui, dunque c’è da
credergli: come all’oste che assicura che il vino è buono.
Triste l’excusatio non petita (accusatio manifesta) per la rielezione,
sempre smentita e poi accettata dopo ben un quarto d’ora di tormento
interiore: “Tutti sanno (a tutti è stato raccontato, ndr) – anche se
qualcuno finge di non ricordare – che il 20 aprile, di fronte alla
pressione esercitata su di me da diverse e opposte forze politiche
perché dessi la mia disponibilità a una rielezione a Presidente, sentii
di non potermi sottrarre a un’ulteriore assunzione di responsabilità
verso la Nazione in un momento di allarmante paralisi istituzionale”.
Peccato che il 20 aprile, dopo la quarta votazione a vuoto per il nuovo
presidente, non ci fosse alcuna “paralisi istituzionale”: ben quattro
presidenti non furono eletti nei primi quattro scrutini (Saragat passò
al 21°, Leone al 23°; Pertini e Scalfaro al 16°), altri quattro
passarono al quarto (Einaudi, Gronchi, Segni e Napolitano) e solo tre al
primo colpo (De Nicola, Cossiga e Ciampi). E peccato che nessuno abbia
ancora spiegato come fu che il mattino del 20 aprile, nel giro di due
ore, Bersani, Berlusconi e Gianni Letta, Maroni, Monti e 17 governatori
regionali su 20 abbiano avuto tutti insieme la stessa idea di salire in
pellegrinaggio al Colle, sincronizzati disciplinatamente, per chiedergli
di restare: furono colti tutti e 22 contemporaneamente da un attacco di
telepatia o qualcuno suggerì loro quella scelta e dettò loro i tempi
delle visite scaglionate? Triste, infine, la conferma del suo “mandato a
tempo” e “a condizione”, espressamente vietato dalla Costituzione. Che,
all’articolo 85, recita: “Il presidente della Repubblica è eletto per
sette anni”. Non per la durata che decide lui, né tantomeno alle
condizioni che impone lui.
Alla base di quella norma
costituzionale tanto secca quanto perentoria c’è un motivo molto
semplice: le istituzioni e i cittadini devono sapere quando scade il
presidente e viene eletto il successore, affinché le elezioni
presidenziali non condizionino permanentemente la normale vita
democratica. Ma Napolitano se ne frega e conferma: “Resterò Presidente
fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo farà
ritenere necessario e possibile… e dunque di certo solo per un tempo non
lungo”. Cioè soltanto finché durerà il presunto stato di necessità, che
però non dipende da fattori oggettivi e da tutti verificabili, ma
esclusivamente dal suo insindacabile capriccio. Se ne andrà quando non
sarà più necessario, ma il necessario lo decide lui. Dal Comma 22 al
Colle 22. Così ogni giorno, ogni minuto, il Parlamento rimarrà ricattato
da questa spada di Damocle, e ogni volta che deciderà qualcosa su
qualunque materia, dalla legge elettorale in giù, ogni parlamentare si
domanderà se stia facendo il meglio non per gli elettori, ma per il capo
dello Stato. Che sarà dunque il padrone assoluto del Parlamento, e
quindi del governo: perché ha annunciato che si dimetterà certamente
prima del 2020, ma non ha precisato quando. Insomma resterà una mina
vagante in grado di condizionare governi, maggioranze e opposizioni, ma
anche l’elezione del successore (che, se Napolitano se ne andrà prima
delle prossime elezioni, rispecchierà verosimilmente l’attuale asse
Pd-Udc-Sc-Ncd; se invece sloggerà dopo, ne rifletterà un’altra ancora
tutta da immaginare). E meno male che dice di conoscere bene “i limiti
dei miei poteri e delle mie possibilità”: deve averglieli spiegati, in
sogno, il Re Sole.
(dal Fatto Quotidiano del 2 gennaio 2013)
Un essere umano, che avrà dei genitori e una famiglia che lo amano,
RispondiEliminaPuò vivere serenamente con tanto (non dico odio perché sarebbe terribile)
"malessere" verso tutti coloro che ritiene diciamo "disonesti" ad essere "pietosi"
Penso che sia il "mestiere" di giornalista, ma in tutta la mia vita non mi è mai capitato un fatto del genere. Forse ho letto i giornali sbagliati dove "l'umanità" prevaleva. La speranza deve sempre prevalere, perché ogni uomo ha diritto ad essere fondamentalmente sereno. Come penso lo sia il giornalista. Fortunato Lui che riesce a separare il suo vivere personale giornaliero ....dal suo mestiere che in questo tanto livore ucciderebbe persino un cavallo - troppo buono - diciamo un leone.